Il fatto illecito che causa la morte di un soggetto dà luogo a due tipi di danno e di risarcimenti ai suoi congiunti:
1) al risarcimento del danno non patrimoniale subito dai familiari costituito dalla sofferenza per la perdita della persona cara, cosiddetto danno iure proprio, ossia per diritto proprio;
2) al risarcimento del danno alla salute subito dalla vittima stessa che, a causa delle gravissime lesioni, è poi deceduta, trasmettendosi a titolo ereditario ai suoi eredi, cosiddetto iure hereditatis, ossia per diritto ereditario.
Il danno da perdita del congiunto iure proprio è detto anche danno riflesso ed è conseguente ad un evento dannoso che si riproduce nei confronti dei prossimi congiunti della vittima e che è risarcibile in ragione della possibile natura plurioffensiva del fatto illecito (Tribunale di Rimini, 12/03/2019 n. 199; Cass. civ. sez. III, 31/05/2003, n. 8828).
In questo caso, la fonte del danno non patrimoniale da morte del congiunto è ravvisabile nella lesione dell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti, della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e della libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della formazione sociale “famiglia”, tutti interessi protetti dagli artt. 2,29 e 30 della Costituzione (Cass. Civ. n. 16070 del 2006; Cass. SS.UU. n. 500 del 1999).
Non tutti però sono legittimati ad ottenere tale risarcimento, infatti la Suprema Corte di Cassazione ritiene sostanzialmente che, a prescindere dalla qualità di eredi, vadano risarciti coloro che abbiano avuto un rapporto di stretta parentela con la vittima o a cui la perdita, per condizioni e circostanze del caso concreto, abbia arrecato un grave perturbamento del loro animo e della vita familiare.
Nello specifico, il Tribunale di Trento con sent. del 19 maggio 1995 ha proposto le seguenti regole per il riconoscimento della legittimazione: “a) possono presuntivamente considerarsi come legittimati ad agire il coniuge, i figli (anche in tenera età), i genitori, i fratelli, e le sorelle: in breve, tutti i componenti della cosiddetta famiglia nucleare, per i quali appare rilevante anche la cessazione della convivenza; b) quanto agli altri parenti ed affini (nonni, nipoti, zii, cugini, cognati, ecc.), la legittimazione può essere loro riconosciuta soltanto se, oltre all’esistenza del rapporto di parentela o di affinità, concorrano ulteriori circostanze (da dimostrare) atte a far ritenere che la lesione della vita o della salute del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale ovvero una grave alterazione della normale esistenza, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per tipo di parentela, non abbia diritto ad essere assistito moralmente dalla vittima […]”. (cfr: CASSANO G., Come si provano e si liquidano i danni non patrimoniali, Volume 1, Giuffrè Editore, p. 243).
Dunque, presupposto fondamentale affinché gli altri parenti e gli affini possano richiedere il risarcimento del danno da morte del congiunto iure proprio consiste nel provare gli elementi di fatto che supportino l’effettiva esistenza di un legame affettivo fra le parti.
Per quanto riguarda l’ammontare del risarcimento, le tabelle del Tribunale di Milano lo determinano in una forbice di valore che va da un minimo ad un massimo, dopodiché lo stesso viene liquidato dal giudice in via equitativa; sarà, dunque, il giudice – qualora non sia stato definito in via stragiudiziale – a quantificare il danno prendendo in considerazione tutte le circostanze concrete del caso specifico, onde ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.
Come emerge dalla sentenza di Cassazione Civile n. 24076, VI sezione, del 25/11/2015 il danno va argomentato in ordine alla particolarità del rapporto dei parenti col defunto, in mancanza di ciò: “per difetto di allegazione di specificità del danno patito, il giudice preannuncia di considerare importi prossimi ai minimi”.
Non è semplice descrivere la sofferenza che la morte di una persona cara può arrecare. Ciò che viene a mancare è la possibilità di godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno, quindi la condivisione, la quotidianità dei rapporti, l’affettività. Tale mancanza genera un inevitabile stato di alterazione psichica tra i superstiti. Alterazione che non è solo immediatamente successiva al decesso ma che si ripercuote per tutta la vita dei congiunti.
Nemmeno la mancanza della convivenza può giustificare una riduzione della sofferenza dei superstiti a livello di quantificazione del danno, in quanto da sola non è sufficiente per ritenere che sia venuta meno il rapporto fra i congiunti.
Pertanto dovrà svolgersi un accertamento completo nel quale bisognerà valutare tutte le condizioni del caso concreto che possano supportare la tesi della perdita di un effettivo sostegno morale (Tribunale di Palermo, sez. III, 06/12/2018 n. 5377).
Ciò che invece è più semplice da comprendere sono le ripercussioni di tipo patrimoniale che la perdita della persona cara ha portato alla famiglia. Si pensi per esempio alla scomparsa di un padre di famiglia che provvedeva con il lavoro quotidiano a mantenere i propri cari, i quali, a seguito della scomparsa si potrebbero trovare in una situazione più svantaggiosa da un punto di vista economico. Oppure la perdita di un figlio sul quale si nutrivano speranze e che avrebbe potuto portare un aiuto economico migliorando la situazione reddituale del nucleo familiare.
In tal caso siamo di fronte ad una tipologia di danno futuro, da valutarsi con criteri probabilistici, in via presuntiva e con equo apprezzamento del caso concreto (Cassazione Civile, sez. III, 20/11/2018 n. 29830). Dunque, anche in questo caso bisognerà analizzare il caso concreto per fornire una quantificazione adeguata del danno.
Sostanzialmente ogni danno arrecato ai superstiti va opportunamente valutato ed accertato, all’esito di compiuta istruttoria sia dal punto di vista della sofferenza morale che della modificazione delle attività esplicate dal danneggiato stesso.
Per quanto riguarda il danno iure hereditatis, invece, esso consiste nel danno che subisce la vittima prima della morte e che si trasmette ai suoi eredi.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto che, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute. La vita, essendo fruibile solo dal titolare, non può essere risarcita qualora il decesso si verifichi immediatamente o dopo pochissimo tempo dalle lesioni, al contrario, quando fra la lesione e la morte intercorre un apprezzabile lasso di tempo viene ritenuto risarcibile il cd. danno biologico terminale (ex multis Cass. Civ. 28/8/2007 n. 18163).
Tale tipologia di danno consiste in un’invalidità temporanea totale che si protrae dalla data dell’evento fino a quella del decesso, dunque, sempre esistente. Per via della lesione del proprio diritto alla salute la vittima deve essere risarcita e, qualora ciò non sia più possibile in quanto deceduta, il suo diritto di credito al risarcimento viene ritenuto trasmissibile agli eredi iure hereditatis.
La Cassazione ha chiarito, in più occasioni, che al danno biologico terminale possa sommarsi una componente di sofferenza psichica denominata danno catastrofale (Cass. Civ. n. 21060/2016).
Il primo va commisurato solo in relazione alla inabilità temporanea, ma comunque calcolato nel massimo della sua intensità dato che la lesione alla salute esita nella morte e può essere liquidato sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea. Il secondo, invece, comporta una valutazione equitativa del giudice che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto ed è, allo stesso modo, massimo nella sua entità (Cass. Civ. 15491/2014; Cass. Civ. 20915/2016).
Ciò che invece non può essere mai risarcito è il cd. danno tanatologico da morte improvvisa. Sebbene ci sia stata in materia giurisprudenza contrastante, nel 2015 con la sentenza n. 15350 le Sezioni Unite sono intervenute affermando che la lesione del bene vita cagiona un danno privo di un legittimo titolare, poiché quando si concretizza quest’ultimo viene a mancare.