C’è una pericolosa insidia da evitare nel caso in cui, per disposizione testamentaria, ad un legittimario viene lasciato un legato con lesione della quota di legittima a lui spettante.

In questo articolo ti spiego cosa deve fare l’erede legittimario se al posto della quota di legittima gli viene lasciato un legato di valore inferiore alla quota che gli spetta per legge

I legittimari sono i membri della famiglia del de cuius – ossia di colui della cui eredità si tratta – ai quali la legge riserva una quota del patrimonio del defunto detta quota di legittima o di riserva.

Sono legittimari: il coniuge, i figli e, in assenza di figli, gli ascendenti.

La quota di legittima o di riserva varia in ragione del numero dei legittimari superstiti che concorrono fra loro nella successione del de cuius.

In materia di successioni per causa di morte, si definisce legato la disposizione con cui il testatore assegna singoli beni ad un soggetto da lui indicato.

Se ad un legittimario viene lasciato un legato, egli deve decidere se accettarlo oppure se chiedere di conseguire quanto gli spetta per legge in virtù della sua qualità di erede legittimario.

Per ottenere questo risultato dovrà impugnare le disposizioni testamentarie per lesione di legittima mediante la cosiddetta azione di riduzione che permette di ripristinare le quote spettanti all’erede.

Infatti, ai sensi dell’art. 554 c.c. le disposizioni testamentarie eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre sono soggette a riduzione nei limiti della quota medesima.

Ai sensi dell’art. 556 c.c. per determinare l’ammontare della quota di cui il defunto poteva disporre si forma una massa di tutti i beni che gli appartenevano, detraendone i debiti.

Giacché l’azione di riduzione si effettua mediante atto di citazione, sarà lo stesso attore a formulare la richiesta di reintegrazione della quota di legittima attraverso l’esposizione della situazione dell’asso ereditario.

 

Infatti, secondo la giurisprudenza, “il legittimario che propone azione di riduzione ha l’onere di indicare entro quali limiti è stata lesa la legittima, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria, nonché il valore della quota di legittima violata dal testatore” (Cass.Civ. n. 13310/2002).

 

E qui si nasconde l’insidia: se il legittimario che ha subito una lesione di legittima accetta anche solo tacitamente il legato egli non può più esercitare l’azione di riduzione.

Quindi, innanzitutto, il legittimario deve avere cura di compiere una rinuncia espressa del legato.

Chi accetta il legato, ai sensi dell’art. 551 del codice civile, perde altresì il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima a meno che il testatore non gli abbia espressamente attribuito la facoltà di chiedere il supplemento.

Quindi attenzione quando una disposizione testamentaria attribuisce un legato: se si accetta il legato non si può più esercitare l’azione di riduzione

Il fatto illecito che causa la morte di un soggetto dà luogo a due tipi di danno e di risarcimenti ai suoi congiunti:

1) al risarcimento del danno non patrimoniale subito dai familiari costituito dalla sofferenza per la perdita della persona cara, cosiddetto danno iure proprio, ossia per diritto proprio;

2) al risarcimento del danno alla salute subito dalla vittima stessa che, a causa delle gravissime lesioni, è poi deceduta, trasmettendosi a titolo ereditario ai suoi eredi, cosiddetto iure hereditatis, ossia per diritto ereditario.

Il danno da perdita del congiunto iure proprio è detto anche danno riflesso ed è conseguente ad un evento dannoso che si riproduce nei confronti dei prossimi congiunti della vittima e che è risarcibile in ragione della possibile natura plurioffensiva del fatto illecito (Tribunale di Rimini, 12/03/2019 n. 199; Cass. civ. sez. III, 31/05/2003, n. 8828).

In questo caso, la fonte del danno non patrimoniale da morte del congiunto è ravvisabile nella lesione dell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti, della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e della libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della formazione sociale “famiglia”, tutti interessi protetti dagli artt. 2,29 e 30 della Costituzione (Cass. Civ. n. 16070 del 2006; Cass. SS.UU. n. 500 del 1999).

 Non tutti però sono legittimati ad ottenere tale risarcimento, infatti la Suprema Corte di Cassazione ritiene sostanzialmente che, a prescindere dalla qualità di eredi, vadano risarciti coloro che abbiano avuto un rapporto di stretta parentela con la vittima o a cui la perdita, per condizioni e circostanze del caso concreto, abbia arrecato un grave perturbamento del loro animo e della vita familiare.

Nello specifico, il Tribunale di Trento con sent. del 19 maggio 1995 ha proposto le seguenti regole per il riconoscimento della legittimazione: “a) possono presuntivamente considerarsi come legittimati ad agire il coniuge, i figli (anche in tenera età), i genitori, i fratelli, e le sorelle: in breve, tutti i componenti della cosiddetta famiglia nucleare, per i quali appare rilevante anche la cessazione della convivenza; b) quanto agli altri parenti ed affini (nonni, nipoti, zii, cugini, cognati, ecc.), la legittimazione può essere loro riconosciuta soltanto se, oltre all’esistenza del rapporto di parentela o di affinità, concorrano ulteriori circostanze (da dimostrare) atte a far ritenere che la lesione della vita o della salute del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale ovvero una grave alterazione della normale esistenza, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per tipo di parentela, non abbia diritto ad essere assistito moralmente dalla vittima […]”. (cfr: CASSANO G., Come si provano e si liquidano i danni non patrimoniali, Volume 1, Giuffrè Editore, p. 243).

Dunque, presupposto fondamentale affinché gli altri parenti e gli affini possano richiedere il risarcimento del danno da morte del congiunto iure proprio consiste nel provare gli elementi di fatto che supportino l’effettiva esistenza di un legame affettivo fra le parti.

Per quanto riguarda l’ammontare del risarcimento, le tabelle del Tribunale di Milano lo determinano in una forbice di valore che va da un minimo ad un massimo, dopodiché lo stesso viene liquidato dal giudice in via equitativa; sarà, dunque, il giudice – qualora non sia stato definito in via stragiudiziale – a quantificare il danno prendendo in considerazione tutte le circostanze concrete del caso specifico, onde ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.

Come emerge dalla sentenza di Cassazione Civile n. 24076, VI sezione, del 25/11/2015 il danno va argomentato in ordine alla particolarità del rapporto dei parenti col defunto, in mancanza di ciò: “per difetto di allegazione di specificità del danno patito, il giudice preannuncia di considerare importi prossimi ai minimi”.

Non è semplice descrivere la sofferenza che la morte di una persona cara può arrecare. Ciò che viene a mancare è la possibilità di godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno, quindi la condivisione, la quotidianità dei rapporti, l’affettività. Tale mancanza genera un inevitabile stato di alterazione psichica tra i superstiti. Alterazione che non è solo immediatamente successiva al decesso ma che si ripercuote per tutta la vita dei congiunti.

Nemmeno la mancanza della convivenza può giustificare una riduzione della sofferenza dei superstiti a livello di quantificazione del danno, in quanto da sola non è sufficiente per ritenere che sia venuta meno il rapporto fra i congiunti.

Pertanto dovrà svolgersi un accertamento completo nel quale bisognerà valutare tutte le condizioni del caso concreto che possano supportare la tesi della perdita di un effettivo sostegno morale (Tribunale di Palermo, sez. III, 06/12/2018 n. 5377).

Ciò che invece è più semplice da comprendere sono le ripercussioni di tipo patrimoniale che la perdita della persona cara ha portato alla famiglia. Si pensi per esempio alla scomparsa di un padre di famiglia che provvedeva con il lavoro quotidiano a mantenere i propri cari, i quali, a seguito della scomparsa si potrebbero trovare in una situazione più svantaggiosa da un punto di vista economico. Oppure la perdita di un figlio sul quale si nutrivano speranze e che avrebbe potuto portare un aiuto economico migliorando la situazione reddituale del nucleo familiare.

In tal caso siamo di fronte ad una tipologia di danno futuro, da valutarsi con criteri probabilistici, in via presuntiva e con equo apprezzamento del caso concreto (Cassazione Civile, sez. III, 20/11/2018 n. 29830). Dunque, anche in questo caso bisognerà analizzare il caso concreto per fornire una quantificazione adeguata del danno.

Sostanzialmente ogni danno arrecato ai superstiti va opportunamente valutato ed accertato, all’esito di compiuta istruttoria sia dal punto di vista della sofferenza morale che della modificazione delle attività esplicate dal danneggiato stesso.

Per quanto riguarda il danno iure hereditatis, invece, esso consiste nel danno che subisce la vittima prima della morte e che si trasmette ai suoi eredi.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto che, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute. La vita, essendo fruibile solo dal titolare, non può essere risarcita qualora il decesso si verifichi immediatamente o dopo pochissimo tempo dalle lesioni, al contrario, quando fra la lesione e la morte intercorre un apprezzabile lasso di tempo viene ritenuto risarcibile il cd. danno biologico terminale (ex multis Cass. Civ. 28/8/2007 n. 18163).

Tale tipologia di danno consiste in un’invalidità temporanea totale che si protrae dalla data dell’evento fino a quella del decesso, dunque, sempre esistente. Per via della lesione del proprio diritto alla salute la vittima deve essere risarcita e, qualora ciò non sia più possibile in quanto deceduta, il suo diritto di credito al risarcimento viene ritenuto trasmissibile agli eredi iure hereditatis.

La Cassazione ha chiarito, in più occasioni, che al danno biologico terminale possa sommarsi una componente di sofferenza psichica denominata danno catastrofale (Cass. Civ. n. 21060/2016).

Il primo va commisurato solo in relazione alla inabilità temporanea, ma comunque calcolato nel massimo della sua intensità dato che la lesione alla salute esita nella morte e può essere liquidato sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea. Il secondo, invece, comporta una valutazione equitativa del giudice che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto ed è, allo stesso modo, massimo nella sua entità (Cass. Civ. 15491/2014; Cass. Civ. 20915/2016).

Ciò che invece non può essere mai risarcito è il cd. danno tanatologico da morte improvvisa. Sebbene ci sia stata in materia giurisprudenza contrastante, nel 2015 con la sentenza n. 15350 le Sezioni Unite sono intervenute affermando che la lesione del bene vita cagiona un danno privo di un legittimo titolare, poiché quando si concretizza quest’ultimo viene a mancare.

 

Montare una “dash cam” su un veicolo consente di registrare per fini personali quanto succede sulla strada sia per esigenze di sicurezza sia per tutelarsi; infatti, disporre di un video di quanto accaduto consente una ricostruzione fedele della realtà, dunque una protezione personale sia sul piano civile (per eventuali richieste di risarcimento danni), che su quello penale (lesioni personali stradali, omicidio stradale) ma anche amministrativo (sanzioni amministrative pecuniarie ed accessorie). Inoltre, può essere d’aiuto come testimonianza anche ad eventuali terzi nel caso in cui vengano filmati eventuali incidenti.

Tuttavia, non è chiaro se questo interesse possa prevalere sul diritto alla privacy e al trattamento dei dati personali.

Per tentare di dare una prima risposta al quesito, occorre innanzitutto analizzare l’art. 6 del Regolamento UE 2016/579 che così recita:

“Liceità del trattamento.

  1. Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
  2. a) l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità;
  3. b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso;
  4. c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento;
  5. d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica;
  6. e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
  7. f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore.”.

Con tale disposizione di legge si stabiliscono le condizioni per cui un dato trattamento possa essere considerato lecito.

La lettera f) è riconducibile caso in esame, in quanto la finalità delle videoriprese è rivolta al perseguimento di un legittimo interesse del titolare del trattamento, ossia alla difesa in eventuali giudizi conseguenti a sinistri stradali ad esempio.

Dunque, possiamo comprendere fin da subito come il nostro ordinamento consenta questo tipo di trattamento, tuttavia occorre certamente adottare i dovuti accorgimenti in modo da non ledere interessi o diritti e libertà fondamentali di chi viene ripreso.

Quali potrebbero essere, quindi, questi accorgimenti?

Proviamo ad enunciarne alcuni qui di seguito:

  • i dati registrati dalla “dash cam”, utilizzata per riprendere quanto accade nelle vicinanze del veicolo durante la circolazione sulle strade, non devono essere comunicati sistematicamente ovvero diffusi a terzi;

 

  • i dati devono essere utilizzati da una persona fisica per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale;

 

  • devono essere adottate cautele a tutela dei terzi (responsabilità civile e sicurezza dei dati), affinché i dati non vengano sottratti illecitamente;

 

  • il campo visivo di ripresa deve essere limitato al solo spazio necessario alle finalità prefissate (protezione e tutela personale in caso di incidenti od altri eventi significativi durante la circolazione stradale);

 

  • i dati devono essere sistematicamente cancellati nel momento in cui non conseguono più il fine per il quale sono stati raccolti;

 

  • è bene dare informazione delle videoriprese, ad esempio, affiggendo un cartello sul vetro, attestante la presenza della “dash cam” e le finalità per la quale si raccolgono i dati. Inoltre, è bene fornire un recapito qualora i soggetti filmati siano interessati alla immediata cancellazione di questi;

 

Una seconda questione, invece, riguarda il valore probatorio di tali filmati nel processo civile.

La norma di riferimento è l’art. 2712 c.c. “Riproduzioni meccaniche” che recita quanto segue:

“Le riproduzioni fotografiche informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.

Ne deriva che i filmati avranno efficacia di piena prova solamente se non verranno contestati da parte avversa.

Secondo la Suprema Corte, tale disconoscimento, che fa perdere alle stesse la loro qualità di prova, pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve, tuttavia, essere chiaro, circostanziato ed esplicito (“dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta” Cassazione civile, sez. lav., 21/09/2016, n. 18507).

Dunque, i video possono fungere da prova se non sono contestati dalle parti, ma la contestazione non può essere meramente generica, al contrario, deve basarsi su fatti convincenti.

Inoltre, ex art. 2729, trattandosi di presunzioni non stabilite dalla legge, sarà il giudice, caso per caso e secondo il suo prudente apprezzamento, a valutare se queste prove possono essere applicate.

In conclusione:

dall’analisi e valutazione della normativa relativa al trattamento dei dati personali sembrerebbe possibile affermare che l’utilizzo di una “dash cam” (Telecamera Difesa Automobilista) da parte di persone fisiche, per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale, è consentito durante la circolazione sulle strade, sia perché non viene escluso esplicitamente dal campo di applicazione del Codice Privacy e del Regolamento (UE) 2016/679 sia perché, in particolare ex art. 6, la raccolta dei dati persegue un interesse legittimo, il cui raggiungimento, con le suddette cautele, pare non determinare una violazione della privacy.

Inoltre, tali filmati potranno essere utilizzati nel processo con valore di piena prova purché la parte contro la quale viene prodotta non se ne disconosca la conformità in modo chiaro, circostanziato ed esplicito.

 

La Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 10816/19 depositata il 18 aprile 2019 ha fatto chiarezza sulla tematica molto dibattuta della risarcibilità delle invalidità permanenti (da lesioni di lieve entità) non strumentalmente accertate.

In particolare, a fronte delle modifiche che il D.l. n. 1 del 2012 ha apportato al codice delle assicurazioni private, molti hanno sostenuto che le lesioni di lieve entità che non fossero suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo non potessero dare luogo a risarcimento per danno biologico permanente.

Le modifiche consistevano nell’introduzione dei seguenti due commi:

“3-ter. Al comma 2 dell’articolo 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”.

3-quater. Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”.

 Queste modifiche avevano generato orientamenti tendenti ad escludere il risarcimento del danno delle invalidità permanenti di lieve entità nei casi in cui lo stesso non fosse stato accertato strumentalmente.

In seguito, con l’entrata in vigore della L. 4 agosto 2017, n. 124 (cosiddetto Decreto Concorrenza) venivano abrogati i due commi 3-ter e 3-quater e si riformulava l’art. 139 del cod. ass. in tal modo: “(omissis) In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali le cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l’ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”.

Tale intervento legislativo, diretto a fare chiarezza, ha, a sua volta, generato interpretazioni discordanti sul contenuto del termine “visivo”.

Fatte queste premesse passiamo ad analizzare il caso in esame.

Tizio, dopo aver subito un tamponamento, conveniva in giudizio l’assicurazione del proprietario del mezzo antagonista domandando il risarcimento dei danni subiti sia materiali che da lesioni.  Si costituiva l’assicurazione non contestando la dinamica del sinistro, ma unicamente la sussistenza della lesione al rachide cervicale, deducendo la mancanza di un accertamento clinico strumentale obiettivo ai sensi dell’art. 139 co. 2 del cod. ass.

Il Giudice di Pace di Rimini accoglieva la domanda dell’attore ed il Tribunale, in appello, confermava la sentenza sul punto. Dunque, l’assicurazione impugnava la sentenza innanzi alla Corte di Cassazione.

La Suprema Corte – con la sentenza n. 10816/19 depositata il 18 aprile 2019 in esame – ha precisato che i commi 3- quater e 3- ter dell’art. 32 del D.L. n. 1 del 2012 sono da leggere in correlazione alla necessità predicata dagli artt. 138 e 139 cod. ass. che il danno biologico sia suscettibile di accertamento medico legale, esplicando entrambe le norme i criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della medicina legale.

Inoltre, le modifiche apportate al codice delle assicurazioni non possono essere intese nel senso che la prova della lesione debba essere fornita esclusivamente con l’accertamento clinico strumentale. Infatti, qualora lo stesso fosse imbrigliato con un vincolo probatorio, ciò porterebbe a limitare il diritto alla salute garantito dalla Costituzione. Al contrario, le modifiche erano unicamente volte a sollecitare gli operatori di giustizia ad un rigoroso accertamento dell’effettiva esistenza delle patologie di modesta entità.

La Corte, pertanto, rigetta tale motivo ricorso dell’assicurazione ritenendo che la sussistenza dell’invalidità permanente non possa essere esclusa per il solo fatto che non sia documentata da un referto strumentale per immagini.

Ottime notizie per i danneggiati che avranno maggiore facilità a dimostrare il danno da lesioni all’integrità psico-fisica.

 

La questione del valore probatorio delle dichiarazioni contenute nel CID (o CAI) sottoscritto dai conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro stradale è stata molto dibattuta.

Oggi, a seguito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 2006 n. 10311 e della successiva giurisprudenza (per tutte: Cassazione civile sez. III, 25/06/2013, n.15881; Cassazione Civile sez. VI, 15/06/2016 n. 12370) la questione ha assunto maggiori termini di chiarezza.

L’art. 143 co. 2 Codice Assicurazioni Private dispone che: “Quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’impresa di assicurazione, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso”.

Le dichiarazioni contenute nel modello CID (o CAI) hanno la valenza di una vera e propria confessione stragiudiziale prevista e disciplinata dall’art. 2735 c.c..

Per confessione si intende “la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte” e rappresenta una vera e propria prova legale, cioè una prova la quale vincola il Giudice nel suo apprezzamento, dovendo egli limitarsi a prendere atto delle risultanze di quella prova.

Trattandosi di confessione essa fa dunque piena prova contro chi l’ha resa.

Tuttavia, in caso di litisconsorzio necessario (ossia quando in una causa è indispensabile che vi siano determinati soggetti, come in caso di r.c. auto la compagnia di assicurazione ed il proprietario del veicolo danneggiante) la confessione resa da una delle parti perde questa valenza di prova legale e può essere liberamente apprezzata dal giudice.

 Questi, dunque, i termini della questione così come precisati dalla Cassazione:

1) va respinta qualunque tesi che porti a concludere che si possa pervenire ad un differenziato giudizio di responsabilità, in ordine ai rapporti tra responsabile e danneggiato da un lato, e danneggiato ed assicuratore dall’altro;

2) alla fattispecie in esame è applicabile l’art. 2733 co. 3 c.c., in quanto vengono in considerazione fatti che hanno efficacia e rilevanza comuni per tutte le parti, il cui accertamento pertanto deve effettuarsi in modo unitario;

3) il modulo CAI “a doppia firma”, dunque, genera una presunzione iuris tantum valevole nei confronti dell’assicuratore, il quale potrà superarla fornendo la prova contraria, in concreto ovvero attraverso il ricorso ad altra presunzione;

4) la presunzione sancita dall’art. 143 Cod. Ass., inoltre, potrà essere superata anche in ragione di altre risultanze di causa, quali ad esempio una consulenza tecnica d’ufficio, idonea a far ritenere che il fatto non si sia verificato ovvero si sia verificato con modalità diverse da quelle dichiarate dal danneggiato.

Riassumendo:

– le dichiarazioni contenute nel modulo C.A.I. non possono fare piena prova nei confronti di alcuno dei litisconsorti chiamati in giudizio, ma non per questo possono considerarsi alla stregua di semplice prova liberamente apprezzabile;

– le dichiarazioni in questione sono idonee a fondare una presunzione semplice nei confronti di tutte le parti convenute;

– l’assicurazione supera – nei termini sopra specificati – la presunzione, la prova contraria libera anche l’assicurato.

Quanto sopra nei rapporti tra confitenti ed assicurazione.

Per completezza di analisi occorre valutare il caso in cui uno dei dichiaranti sbaglia e per errore firma un CID ad esso sfavorevole.

Orbene. In tal caso occorre considerare che trattandosi di confessione stragiudiziale essa non può essere revocata salvo che il confitente fornisca la prova che la dichiarazione è stata determinata da errore di fatto o da violenza (art. 2732 c.c.).

E comunque tutti i protagonisti del sinistro, ancorché abbiano sottoscritto il CID, possono dar prova che lo stesso si è svolto con modalità diverse da quelle risultanti dal CID.

Dal punto di vista pratico, poiché trovarsi nelle condizioni di dover fornire prova che i fatti si sono verificati in modo diverso da quello risultante dal CID significa trovarsi in posizione di svantaggio processuale in quanto può essere arduo – o addirittura impossibile – fornire la prova, è consigliabile prestare la massima attenzione nella compilazione del CID.

Attento, dunque, a quello che sottoscrivi!

Ci sono casi in cui chi tampona non ha torto o almeno “non ha tutti i torti”.

La giurisprudenza costante della Corte di Cassazione è nel senso che il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l’arresto tempestivo del mezzo, evitando collisioni con il veicolo che precede, per cui l’avvenuto tamponamento pone a carico del conducente medesimo una presunzione “de facto” di inosservanza della distanza di sicurezza.

Ne consegue che, esclusa l’applicabilità della presunzione di pari colpa di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, egli resta gravato dall’onere di dare la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto dell’automezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili (così, da ultimo, Cass., 18 marzo 2014, n. 6193).

La presunzione de facto di mancato rispetto della distanza di sicurezza viene meno, tuttavia, nel caso del tamponamento in danno di un veicolo che costituisca un ostacolo imprevedibile e anomalo al normale andamento della circolazione stradale (vedi Cassazione Civile, 19 dicembre 2006, n. 27134) e che anche nelle ipotesi di collisione da tergo deve essere valutata in modo comparativo la condotta di entrambi i conducenti.

Ne consegue che l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza deve essere calcolato in previsione della normale marcia dei veicoli e non di improvvisi, anomali ed imprevedibili ostacoli (così Cassazione Civile, 21 agosto 1992, n. 9727), quale potrebbe essere l’immissione improvvisa di un veicolo nel percorso di quello sopraggiungente, ovvero il ritorno imprevedibile in carreggiata di un veicolo fuoriuscito dalla sede stradale.

Tuttavia, spetta al conducente del veicolo che si trova a marciare dietro quello che viene tamponato dare la prova della sussistenza di situazioni quali quelle suddette, idonee ad escludere la presunzione di colpa dell’art. 149 C.d.S. ed a comportare – quanto meno – un concorso di colpa nella causazione del sinistro da parte dei soggetti in esso coinvolti.

COS’E’ IL CID?

Il CID altrimenti meglio definito CAI – constatazione amichevole incidente – è il modulo che ci viene consegnato al momento della sottoscrizione del contratto di assicurazione.

Si tratta del modello di constatazione amichevole di incidente ed è previsto dalla Convenzione per l’indennizzo diretto.

E’ un documento che si deve tenere in auto e che, all’occorrenza, dovrà essere redatto e sottoscritto congiuntamente dai conducenti dei due veicoli coinvolti.

 

A COSA SERVE IL CID?

La constatazione amichevole ha una duplice utilità.

In primo luogo, funge da denuncia di sinistro, nel senso che, una volta compilata va inviata da entrambi i conducenti alla propria assicurazione.

In secondo luogo, se viene firmata da tutti i soggetti coinvolti nel sinistro, si presume che lo scontro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal CID stesso, salvo che l’assicuratore fornisca prova contraria.

Se la constatazione amichevole non viene firmata da tutti i soggetti coinvolti, oppure presenta delle caselle non compilate, essa perde l’efficacia di prova legale e le dichiarazioni nella stessa contenute vengono considerate meri argomenti di prova valutabili liberamente del giudice (ex multis, Tribunale Massa, 04/12/2018, n. 851).

Dal punto di vista della denuncia di sinistro compilare la constatazione amichevole e inviarla alla propria assicurazione consente di dimezzare i termini entro cui la stessa deve formulare al danneggiato un’offerta per il risarcimento.

Infatti, ai sensi dell’art. 148 c.d.a., se la CID è sottoscritta da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro il termine di risposta dell’assicurazione per formulare l’offerta di risarcimento è di 30 giorni anziché 60.

Fermo restando che in tale periodo il mezzo deve essere messo a disposizione del perito dell’assicurazione per l’ispezione ed il danneggiato potrà procedere alla riparazione del mezzo solo dopo che l’assicurazione avrà effettuato le proprie operazioni di accertamento.

Da quanto detto, dunque, è chiaro che non è sufficiente il solo CID per provare la dinamica di un sinistro stradale.

Può risultare altresì utile l’intervento delle forze dell’ordine di modo che le stesse, tramite gli opportuni rilievi, possano fornire all’assicurazione o al giudice degli ulteriori elementi probatori. Ciò appare peraltro indispensabile in caso di feriti.

Ovviamente, qualora vi sia stato l’intervento dell’autorità bisognerà indicarlo nella CID.

Così come è di fondamentale importanza indicare i dati dei testimoni, qualora ce ne fossero, che hanno assistito al sinistro e potranno confermarne la dinamica o tramite una dichiarazione scritta o in giudizio oralmente.

Una volta debitamente compilata dai soggetti coinvolti, gli assicurati devono inviarla alla propria compagnia assicurativa nel termine di 3 giorni dal sinistro o dal momento in cui ne sono venuti a conoscenza (ai sensi dell’art. 1913 c.c.). Pena la perdita del diritto all’indennità in caso di dolo (intenzione) o una sua riduzione in caso di colpa, se l’assicurazione ha subito un danno e nella misura in cui l’ha patito.

 

COSA SUCCEDE SE NON VIENE COMPILATO IL CID?

Può accadere in alcuni casi che a seguito di un sinistro per dimenticanza, per lo shock dell’accaduto o per qualche incomprensione con l’altro conducente non si proceda alla compilazione della constatazione amichevole. In questi casi resta fermo l’obbligo di denunciare il sinistro alla propria assicurazione.

Si devono quindi raccogliere tutti i dati necessari, gli stessi che servono per la compilazione del CID e quindi:

– generalità del conducente, compreso numero di documento;

– dati dei veicoli (marca, modello, targa);

– dati delle polizze assicurative;

– modalità dell’incidente.

Consigliabile, se vi è l’accordo, incontrare la controparte, compilare e firmare il modulo in un momento successivo: si rammenta che in caso di firma congiunta il risarcimento dei danni è molto più veloce.

 

QUALI SONO I TEMPI PER LA PERIZIA E LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO MATERIALE CON IL CID?

La propria Compagnia dopo aver ricevuto la denuncia del sinistro:

– deve provvedere alla perizia del danno entro 10 giorni dal giorno in cui gli viene messo a disposizione il veicolo;

– deve corrispondere l’indennizzo entro i 15 giorni successivi alla comunicazione dell’accettazione dell’offerta, della mancata accettazione (in tal caso a titolo di acconto) o della mancata risposta all’offerta (art. 149 C.d.a.).

 

COSA SUCCEDE SE NON SI E’ D’ACCORDO SULLA STIMA DEL DANNO?

L’assicurazione paga la somma stimata che verrà trattenuta dal danneggiato a titolo di acconto sul maggior danno ed il danneggiato potrà agire per la differenza.

 

COSA SUCCEDE SE I PROTAGONISTI DEL SINISTRO NON SONO D’ACCORDO SULLA DINAMICA?

Il CID contiene una sezione contraddistinta con il n. 14 in cui le parti possono e devono inserire le proprie osservazioni.

Dunque se non c’è l’accordo sulla dinamica è consigliabile comunque compilare il CID scrivendo ciascuno la propria versione dei fatti nelle osservazioni al punto 14.

Modulo_CAI

Il tamponamento a catena si verifica quando un veicolo urta la parte posteriore di un altro veicolo, coinvolgendo a sua volta gli altri veicoli in fila.

Non sempre risulta chiaro di chi sia la responsabilità in questo particolare tipo di sinistro stradale.

Generalmente si distingue tra i casi in cui il tamponamento avviene fra veicoli fermi o in movimento, da queste due diverse situazioni conseguono responsabilità differenti.

Nel caso in cui gli autoveicoli siano fermi, la giurisprudenza ha ritenuto che la responsabilità sia del conducente dell’ultimo veicolo, ossia di colui che ha originato l’effetto del tamponamento a catena.

A questi quindi vanno dirette le richieste risarcitorie.

Invece, in tema di tamponamento di veicoli in movimento, la Suprema Corte: “ritiene applicabile l’art. 2054 co. II Cod. Civ. con conseguente presunzione “iuris tantum” di colpa in eguale misura a carico di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato), fondata sull’inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante” (Cass. sez. III, 29/05/2003, n. 8646).

Il citato articolo 2054 Cod. Civ. al secondo comma stabilisce che nei casi di scontro tra veicoli, fino a prova contraria, si presume che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente alla produzione del sinistro. Dunque, nel caso di colonna di veicoli in movimento, si applica questa presunzione di colpa e in ciascuna coppia di veicoli entrambi i conducenti sono responsabili sulla base del mancato rispetto della distanza di sicurezza sancito dall’art. 149 del Codice della strada. L’unico modo per superare tale presunzione di pari colpa è fornire la prova che il tamponamento è derivato da una causa non imputabile al conducente ma ad un comportamento dell’auto tamponata.  Secondo la Corte di Cassazione, infatti, tale prova liberatoria grava in capo al conducente che ritiene di non essere responsabile (Cass. 21 aprile 2016, n. 8051 e Cass. 09/03/2017 n. 6036).

Alla luce dei succitati principi, resterebbe solo da verificare se la mancata tempestiva frenata del veicolo condotto possa essere stata determinata da cause a lui non imputabili.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza del 31/05/2017 n. 13703 riporta interessanti conclusioni in merito.

La vicenda riguardava un incidente mortale avvenuto a seguito di un tamponamento a catena di veicoli in movimento, dove è deceduto il motociclista che ha originato il tamponamento, in quanto, a seguito dello stesso, è stato travolto da un’altra autovettura che sopravveniva dalla direzione di marcia opposta. Inizialmente, il Tribunale di Modena escludeva qualsiasi responsabilità in capo al conducente dell’autovettura in considerazione dell’imprevedibilità dell’accadimento, tale da condurre alla conclusione che questi non avrebbe potuto comportarsi diversamente, dato che non vi erano le condizioni per una manovra di emergenza. Invece, per quanto riguarda il motociclista e l’autovettura da lui tamponata, la Corte ascriveva a questi il concorso di colpa in quanto il primo non aveva rispettato la distanza di sicurezza e il conducente della seconda aveva compiuto una brusca frenata.

La Corte d’appello di Bologna aveva riformato in modo parziale la decisione di primo grado, ritenendo che la causazione del sinistro fosse da ricondurre unicamente alla condotta del motociclista.

Contro tale decisione veniva fatto ricorso in Cassazione sulla base di due motivi, entrambi giudicati infondati. In particolare, il primo riguardava il fatto che quand’anche il motociclista non avesse rispettato la distanza di sicurezza, l’altro conducente avrebbe dovuto provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Tale motivo viene ritenuto infondato e si ritiene che l’unico aspetto da verificare sia se la mancata tempestiva frenata della motocicletta possa essere stata determinata da cause non imputabili alla vittima. Tuttavia, questo tipo di accertamento non può essere demandato alla Corte di Cassazione. Inoltre, già in sede di appello si era osservato che: “l’arresto improvviso di un veicolo per le più svariate cause è un evento non eccezionale alla circolazione stradale e deve, quindi, essere previsto e considerato dagli utenti della strada per regolare la propria condotta di guida”.

In quanto al secondo motivo i ricorrenti hanno argomentato che se il conducente dell’autoveicolo proveniente dalla corsia opposta e di fatto causa del decesso della vittima, avesse rispettato la distanza di sicurezza dal veicolo che lo precedeva, avrebbe avuto a sua volta tutto il tempo occorrente per effettuare una manovra di emergenza ed evitare il verificarsi del sinistro.

La Corte ha ritenuto anche tale motivo infondato poiché le argomentazioni apportate dalla corte territoriale in merito a tale evenienza si ritengono di per sé già soddisfacenti. In particolare, essa riteneva assolutamente imprevedibile la situazione in cui si è ritrovato il conducente dell’autovettura per cui, da un momento all’altro, la vittima, sbalzando via dalla sella della propria motocicletta, precipitava proprio di fronte a questi. Rispetto a tale dinamica non si può applicare l’art. 149 del codice della strada poiché la ratio di quest’ultimo è quella di evitare il tamponamento fra veicolo che precedono nella medesima direzione e non di scongiurare l’avvenimento di fatti imprevedibili. In secondo luogo, la corte territoriale aveva argomentato a proposito del nesso causale prospettando la possibilità che la vittima fosse già deceduta a seguito del tamponamento da lei generato. Anche tale ragione appare alla Corte di Cassazione logica e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione; dato che nessuna delle due argomentazioni è stata impugnata, il ricorso va reso inammissibile e astrattamente inidoneo a cassare la sentenza impugnata.

Per concludere, nei casi di tamponamento a catena di veicoli in movimento, a meno di situazioni particolarmente incisive sulla causazione del sinistro, che possano escludere la responsabilità in capo ad un conducente, generalmente si applica l’articolo 2054 cod. civ. comma secondo e la responsabilità è suddivisa tra ciascuna coppia di veicoli.

ordinanza n. 13703 del 31.05.2017

 

Spesso, a seguito di un sinistro stradale, capita di non sapere come procedere e a quale assicurazione rivolgersi per richiedere il risarcimento dei danni.

Vediamo allora quali sono le procedure di indennizzo da seguire.

 

Risarcimento indiretto

 – categoria residuale

– art.148 c.d. A.

– danni a cose/lesioni gravi alla persona

– azione esercitabile dopo 60/90 giorni dalla richiesta all’assicurazione del danneggiante.

– termini dimezzati nel caso in cui il modulo sia firmato dai conducenti

– richiesta all’assicurazione del danneggiante

 

 

Risarcimento diretto

– art.149 c.d. A.

– danni alle cose/ al veicolo/ lesioni di lieve entità

– solo due veicoli coinvolti

– veicoli immatricolati in Italia

– non sono coinvolti pedoni, ciclisti o beni immobili

– ci deve essere impatto fra i veicoli

– solo per veicoli a motore

– richiesta alla propria assicurazione

– suolo italiano o San Marino o Città del Vaticano

Procedura di risarcimento diretto

  1. Quando è ammessa?

Nel caso in cui si rimanga coinvolti in un incidente stradale una delle prime cose da fare è informare la propria assicurazione o la compagnia assicurativa della controparte. Si informa la prima nel caso di risarcimento diretto: la procedura, così come disciplinata dal dpr 254/2006, è ammessa in caso di incidenti che coinvolgono non più di due autovetture responsabili e se non vi sono stati danni alla persona dall’ammontare superiore a 9 punti di invalidità.

Essa si applica in tutte le ipotesi di danni al veicolo, nonché ai danni alle cose trasportate di proprietà dell’assicurato o del conducente e alle lesioni di lieve entità al conducente, anche quando nel sinistro siano coinvolti terzi trasportati (tuttavia il risarcimento di quest’ultimo è regolato dall’art. 141 c.d.A.).

Tali sinistri devono coinvolgere: a) veicoli immatricolati in Italia; b) veicoli immatricolati nella Repubblica di San Marino e nello Stato Città del Vaticano, se assicurati con imprese con sede legale nello Stato italiano o con imprese che esercitino l’assicurazione obbligatoria responsabilità civile auto ai sensi degli articoli 23 e 24 del codice e che abbiano aderito al sistema del risarcimento diretto; inoltre il sinistro deve essersi verificato sul suolo italiano e i soggetti coinvolti devono avere residenza in Italia.

 

1.1 Come presentare la richiesta di risarcimento diretto e che cosa deve contenere?

La richiesta è presentata mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o con consegna a mano o a mezzo telegramma o telefax o in via telematica, salvo che nel contratto sia esplicitamente esclusa tale ultima forma di presentazione della richiesta di risarcimento.

Nell’ipotesi di danni al veicolo e alle cose, la richiesta di risarcimento deve contenere i seguenti elementi:

  1. a) i nomi degli assicurati;
  2. b) le targhe dei due veicoli coinvolti;
  3. c) la denominazione delle rispettive imprese;
  4. d) la descrizione delle circostanze e delle modalità del sinistro;
  5. e) le generalità di eventuali testimoni;
  6. f) l’indicazione dell’eventuale intervento degli Organi di polizia;
  7. g) il luogo, i giorni e le ore in cui le cose danneggiate sono disponibili per la perizia diretta ad accertare l’entità del danno.

Nell’ipotesi di lesioni subite dai conducenti, la richiesta indica, inoltre:

  1. h) l’età, l’attività e il reddito del danneggiato;
  2. i) l’entità delle lesioni subite;
  3. l) la dichiarazione di cui all’articolo 142 del codice circa la spettanza o meno di prestazioni da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie;
  4. m) l’attestazione medica comprovante l’avvenuta guarigione, con o senza postumi permanenti;
  5. n) l’eventuale consulenza medico-legale di parte, corredata dall’indicazione del compenso spettante al professionista.

L’impresa che ha ricevuto la richiesta ne dà immediata comunicazione all’impresa dell’assicurato ritenuto in tutto o in parte responsabile del sinistro, fornendo le sole informazioni necessarie per la verifica della copertura assicurativa e per l’accertamento delle modalità di accadimento del sinistro.

 

1.2 Quali sono i tempi?

Ai sensi dell’art. 145 c.d.a. l’azione per il risarcimento diretto dei danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione, può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni, ovvero novanta in caso di danno alla persona, decorrenti da quello in cui il danneggiato abbia chiesto alla propria impresa di assicurazione il risarcimento del danno, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento

A norma dell’art. 149 c.d.A. l’impresa, a seguito della presentazione della richiesta di risarcimento diretto, è obbligata a provvedere alla liquidazione dei danni per conto dell’impresa di assicurazione del veicolo responsabile, ferma la successiva regolazione dei rapporti fra le imprese medesime.

Se il danneggiato accetta la somma offerta, l’impresa di assicurazione provvede al pagamento entro quindici giorni dalla ricezione della comunicazione e il danneggiato è tenuto a rilasciare quietanza liberatoria valida anche nei confronti del responsabile del sinistro e della sua impresa di assicurazione.  Se il danneggiato non accetta, l’impresa di assicurazione, entro quindici giorni, corrisponde lo stesso la somma offerta al danneggiato che abbia comunicato di non accettare l’offerta o che non abbia fatto pervenire alcuna risposta. La somma in tale modo corrisposta è imputata all’eventuale liquidazione definitiva del danno. In caso di comunicazione dei motivi che impediscono il risarcimento diretto ovvero nel caso di mancata comunicazione di offerta o di diniego di offerta entro i termini previsti dall’articolo 148 o di mancato accordo, il danneggiato può proporre l’azione diretta di cui all’articolo 145, comma 2, nei soli confronti della propria impresa di assicurazione. L’impresa di assicurazione del veicolo del responsabile può chiedere di intervenire nel giudizio e può estromettere l’altra impresa, riconoscendo la responsabilità del proprio assicurato ferma restando, in ogni caso, la successiva regolazione dei rapporti tra le imprese medesime secondo quanto previsto nell’ambito del sistema di risarcimento diretto.

Anche se, a seguito di un recente intervento della Corte di Cassazione, è sempre meglio chiamare tutti nel processo avviato per il risarcimento del danno.

 

  1. Il risarcimento indiretto

Nel caso di sinistri con danni a cose o lesioni gravi alla persona si parla di indennizzo indiretto e si provvede a informare l’assicurazione del danneggiante. Per i danni alle cose la richiesta di risarcimento deve recare l’indicazione degli aventi diritto al risarcimento e del luogo, dei giorni e delle ore in cui le cose danneggiate sono disponibili, per non meno di cinque giorni non festivi, per l’ispezione diretta ad accertare l’entità del danno.

Nel caso di lesioni personali o decesso la richiesta di risarcimento deve essere presentata dal danneggiato o dagli aventi diritto e deve contenere l’indicazione del codice fiscale degli aventi diritto al risarcimento e la descrizione delle circostanze nelle quali si è verificato il sinistro ed essere accompagnata dai dati personali del danneggiato riguardanti l’età, il reddito e l’entità delle lesioni subite.

 

2.1 Quali sono i tempi?

Come da art. 148 c.d.A. entro sessanta giorni dalla ricezione della richiesta, nel caso di lesioni materiali, le assicurazioni devono formulare l’offerta di risarcimento o indicarne i motivi per i quali ritengono di non doverlo fare.

Se il modulo di denuncia del sinistro è stato sottoscritto dai conducenti coinvolti nel sinistro, i tempi si riducono della metà.

In caso di lesioni personali, invece, le Compagnie sono tenute a provvedere entro novanta giorni.

Il danneggiato, in pendenza dei termini di cui sopra, non può rifiutare gli accertamenti da parte dell’impresa strettamente necessari alla valutazione del danno alle cose o del danno alla persona. Qualora ciò accada, i termini per l’offerta risarcitoria o per la comunicazione dei motivi per i quali l’impresa non ritiene di fare offerta sono sospesi.

In caso di richiesta incompleta l’impresa di assicurazione richiede al danneggiato entro trenta giorni dalla ricezione della stessa le necessarie integrazioni; in tal caso i termini decorrono nuovamente dalla data di ricezione dei dati o dei documenti integrativi.

Se il danneggiato dichiara di accettare la somma offertagli, l’impresa provvede al pagamento entro quindici giorni dalla ricezione della comunicazione. Sempre entro quindici giorni l’impresa corrisponde la somma offerta al danneggiato che abbia comunicato di non accettare l’offerta. La somma in tal modo corrisposta è imputata nella liquidazione definitiva del danno.

Decorsi trenta giorni dalla comunicazione senza che l’interessato abbia fatto pervenire alcuna risposta, l’impresa corrisponde al danneggiato la somma offerta.

 

 

Fra gli strumenti messi a disposizione del creditore per la gestione degli insoluti, il pignoramento presso terzi è forse quello che offre maggiori garanzie di soddisfacimento nell’immediato poiché riguarda, fra l’altro, somme o beni non ancora percepiti dal debitore e perciò ancora aggredibili che sono detenuti da terzi o dei quali i terzi sono a loro volta debitori nei confronti del nostro debitore.

 

Ma facciamo un passo indietro.

 

Prima del pignoramento, bisogna munirsi di un titolo esecutivo che può essere ad esempio la cambiale, l’assegno o il decreto ingiuntivo (o altro provvedimento emesso dal Giudice come ad esempio la sentenza) munito di formula esecutiva. Dopodiché, si può procedere alla notifica del precetto, ossia all’intimazione di pagare il debito entro il termine di 10 giorni, alla scadenza dei quali si può procedere con il pignoramento.

 

Riguardo al pignoramento presso terzi, l’art. 543 c.p.c. prevede che esso possa avere ad oggetto sia i crediti del debitore verso terzi sia le cose del debitore che sono in possesso di terzi.

In entrambi i casi, tale procedura non può realizzarsi senza coinvolgere un soggetto terzo al quale si chiede di collaborare, in virtù del fatto che egli è a sua volta debitore del debitore.

Rimanendo pur sempre estraneo all’azione esecutiva, il terzo viene istituito come custode della cosa pignorata sin dal giorno della notificazione dell’atto di pignoramento ed egli non può disporre del bene se non per ordine del giudice; inoltre, a seconda dei casi, deve comparire davanti al giudice dell’esecuzione per fare la cosiddetta “dichiarazione del terzo”, oppure comunicarla al creditore a mezzo raccomandata o via pec, con cui deve specificare di quali cose o di quali somme è debitore o si trova in possesso e quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna.

Urge precisare che, a seguito della legge n. 228/2012 che ha modificato l’art. 548 c.p.c., l’inerzia del terzo comporta che in mancanza della dichiarazione vige la cosiddetta regola del silenzio-assenso: se non manda la dichiarazione né si presenta all’udienza appositamente fissata, il credito pignorato si considera non contestato.

 

Quanto al pignoramento dei crediti, generalmente, solo i crediti di denaro sono oggetto del pignoramento.

Per quanto riguarda i crediti verso terzi sono pignorabili gli stipendi, i salari e le indennità dovuti dai privati relative al rapporto di lavoro in misura non superiore al quinto.

Così come si possono pignorare le somme dovute a titolo di pensione o di indennità sempre nella misura di un quinto, ma solo per la parte eccedente alla misura massima dell’assegno sociale, aumentato della metà. Va comunque garantito al pensionato il trattamento minimo che possa assicurargli mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita.

 

Invece, sono cose del debitore in possesso di terzi, ad esempio, le somme depositate presso una Banca o su libretti postali. L’avvocato può pignorare direttamente le somme versate dal debitore sul proprio conto corrente. Nel caso di persona giuridica il conto sarà pignorabile al 100%, mentre nel caso di persona fisica, qualora il conto sia adibito o meno all’accredito di un reddito da stipendio o pensione, potrà essere pignorato nei limiti della minima sussistenza dell’individuo.

Infine, sono soggette al pignoramento presso terzi anche le quote di partecipazione a società a responsabilità limitata, poiché esse hanno un valore patrimoniale oggettivo, nulla rileva il fallimento della società.

Ma come fa l’avvocato a sapere presso quali banche il debitore ha intestati dei conti correnti?

Se una volta si usava notificare il pignoramento a diverse banche limitrofe alla zona di residenza del debitore, con la speranza di trovarli, adesso la procedura è stata semplificata dall’introduzione dell’art. 492 bis c.p.c.

Quest’ultimo strumento consente al creditore, una volta ottenuta l’autorizzazione del Tribunale, di accedere alle banche dati dell’Agenzia delle Entrate da cui emergono: la dichiarazione dei redditi, contenente gli eventuali redditi derivanti da rapporti di lavoro; i contratti registrati, come ad esempio le locazioni di immobili; ed i rapporti con le banche e la posta, dai quali si può verificare se il debitore ha dei conti correnti aperti intestati.

La stessa istanza può essere rivolta anche all’Inps, sempre col fine di ricercare i beni da pignorare.

Grazie a queste informazioni è possibile procedere col pignoramento in maniera sia più certa ma anche più celere, evitando che scada il precetto notificato.

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